Borgogna, Francia, 1352.
La Peste è ormai passata. Jacques, contadino 27enne, torna al paese dopo alcuni mesi passati nei boschi a nutrirsi di castagne, uova e roditori, spinto dall'istintivo pensiero che durante l'epidemia sia meglio allontanarsi dai centri abitati e dagli altri esseri umani in generale.
Al suo rientro incontra tra i primi il nuovo parroco (il vecchio Rénaud è morto di peste) che lo informa che i suoi zii, unica sua famiglia, sono caduti vittime della malattia insieme ai loro figli, e pertanto il piccolo casolare con appezzamento spetta a lui in eredità. Colpito dal lutto, ma anche dall'improvviso passaggio tra i possidenti, Jacques la sera si reca all'osteria per cercare di capire cosa sia successo in questi suoi mesi di lontananza. Al tavolo i pochi amici sopravvissuti gli raccontano che pure la famiglia del Barone è stata sterminata, e che il feudo è passato a un lontano cugino del Poitou, che ha mandato un amministratore per gestirlo e farlo fruttare, ma con il numero di contadini, mezzadri e servi drasticamente ridotti dalla peste, questi sta cercando anche nelle contee vicine nuovi lavoratori, offrendo condizioni interessanti, e ha fatto persino arrivare dei carpentieri da Dijon per migliorare l'ormai vetusto mulino del borgo, rimasto l'unico in attività della zona, con le sue macchine vecchie e inefficienti. Il giorno dopo Jacques decide di presentarsi al castello, e con non poca sorpresa viene accolto con cordialità dal nuovo castellano che - conoscendolo come contadino esperto dalle voci del villaggio - dopo avergli offerto vino, salame e formaggio, gli offre seduta stante la gestione del più grosso appezzamento del maniero, a condizioni che prima della pestilenza sarebbero state inaudite. Jacques, a cui dopo la morte dei genitori si prospettava un futuro - se fortunato - da mezzadro, non può trattenersi da un sorriso amaro, scuotendo la testa e pensando a come sia bizzarro il fato.
La tragedia è stata immane, ma per i superstiti anche foriera di nuove opportunità economiche, di mobilità sociale, e anche - per necessità! - di miglioramenti tecnologici.
Perché parlo di questo? Perché sono fatti che si studiano a scuola, in storia a volte anche in letteratura, e dovremmo averli tutti ben presenti, sia nella narrativa che nel significato.
E il significato - la parte che ci interessa al momento - è che una situazione di scarsità di un bene, in questo caso il lavoro qualificato, qualsiasi ne sia la causa, ha delle precise conseguenze economiche.
La prima di queste è - ovviamente, ma molti sembrano scordarsene - un aumento del prezzo relativo della risorsa in questione: se ci sono pochi contadini, i feudatari non possono più trattarli come bestie, ma sono costretti a contrattare, altrimenti i campi rimangono incolti e loro non possono mantenere la terza damigella alla moglie, con tutto quello che ne consegue...
Allo stesso modo, se si trovano - oggi che sono passati 650 anni - persone disposte a fare lavori massacranti per un tozzo di pane, è perché queste persone non solo esistono, ma ce n'è abbondanza.
E perché ce n'è abbondanza? Beh, facilmente: se io inserisco in un mercato del lavoro delle persone il cui livello di remunerazione è calcolato sul livello dei prezzi dei loro paesi di origine - dove il reddito medio è un centesimo di quello Italiano - chiaramente ottengo degli effetti droganti sull'offerta complessiva e COSTRINGO anche gli autoctoni a competere con QUEL LIVELLO DI PREZZI. Con il risultato che il misero nostrano diventa ancora più misero, e il misero straniero appena possibile scappa non lasciando nulla o quasi nell'economia globale.
Ma andatelo a dire agli attori che si "preoccupano" (!) del prezzo dei pomodori... preoccupazione ovviamente ridicola in quanto la componente del lavoro dei campi influisce in modo ridicolmente basso sul prezzo alla vendita. Ma loro sono attori, e la gente li ascolta. E l'Egemonia lo sa. Cosa credete?
La seconda considerazione, ancora più perniciosa, è che in uno stato di scarsità di manodopera i lavori che POSSONO essere automatizzati o migliorati lo sono. Conviene.
Però costa soldi, l'innovazione. Costano soldi, i robot. Costano soldi soprattutto gli ingegneri e i programmatori che li creano e li fanno funzionare. E se invece del robot, che poi mi alza pure il redditometro, ho la possibilità di assumere un africano in nero per due lire? Che succede? Succede che fanculo il robot, e se passa l'ispettorato del lavoro manderò una cassa di sanmarzano alle loro mogli, ecco che succede.
Ed eccoci finalmente arrivati al punto dopo tanta narrativa: l'immigrazione incontrollata di persone prive di abilità tecniche serve SOLO E UNICAMENTE agli operatori DISONESTI di industrie INEFFICIENTI. Per il resto dell'economia del paese rappresenta unicamente una iattura sia in termini di livello dei redditi, che in quello dell'innovazione tecnologica e dei processi. E oltre a tutto questo comporta costi sociali pesantissimi in termini di drenaggio di welfare e spesa sociale che VANNO A PESARE PRECISAMENTE SULLE CLASSI DEBOLI che sopportano già gli svantaggi economici, causando in aggiunta tutta una serie di problematiche sociali, economiche e criminali.
Quindi, quando qualche radical shit vi dice che "l'immigrazione irregolare è necessaria per l'economia", voi ricordatevi di Jacques, e investigate che la persona in questione non sia caduta dal seggiolone, non sia iscritta al PD, o non legga Repubblica.
Se non presenta questi sintomi, state pur sicuri che ha uno zio che nel suo campo di pomodori impiega il caporalato.
E tanti saluti alla "solidarietà".
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